La tutela del Tuber magnatum, questa sconosciuta

*di Laura Giannetti

L’obiettivo di questo scritto, per quanto un po’ polemico nel titolo, è cercare di dare un inquadramento logico ai tanti discorsi fatti e sentiti. Ultimamente purtroppo stiamo assistendo ad una pericolosa deriva nella quale invece di dare spazio alle competenze acquisite ed alle sperimentazioni svolte si preferisce riferire solo pareri, pensieri, idee o sensazioni, in pratica un minestrone infernale dentro il quale si può trovare di tutto. La tutela del tartufo bianco è dispersa là dentro, sconosciuta ai più per senso e finalità. Non stupisce quindi che non si riesca a “dare le gambe” a progetti di tutela efficaci perché se l’obiettivo non è chiaro allora sarà impossibile comprendere anche come fare a raggiungerlo.

Prima di tutto per affrontare il tema della tutela delle tartufaie di bianco pregiato è importante prendere consapevolezza di due evidenze empiriche che sono di facile osservazione nel mondo reale:

  • la prima è che le tartufaie non sono isole, ma fanno parte di un territorio dove accadono molte cose;
  • la seconda e che concetti come tutela e produzione vanno a braccetto, ma non sono la stessa cosa. Ne consegue che le tartufaie naturali a raccolta riservata, da sole e per quanto ben gestite, non possono garantire nel tempo la conservazione della risorsa.

Tartufaie controllate e habitat di tutela. Concetti diversi e funzioni diverse.

La tartufaia controllata prevista dalla norma regionale e nazionale persegue il miglioramento produttivo della tartufaia che sta alla base dello “scambio” con l’esclusività della raccolta. L’interesse per migliorare la produzione della tartufaia è tanto maggiore quanto più è scarso, dal punto di vista economico[1], il bene prodotto (es. Tuber magnatum). La sfera di interesse è sostanzialmente di tipo privato.

[1] Bene economico scarso: un bene per il quale la disponibilità è sensibilmente inferiore alla quantità richiesta dal mercato.

Quando invece parliamo di habitat di tutela del tartufo bianco [2], l’aspetto rilevante è la conservazione della risorsa (tutela). Infatti identificare gli habitat di tutela significa definire gli ambienti di crescita del tartufo, che sebbene geograficamente distanti, sono accomunati dalle stesse fragilità. Nessun dottore al mondo può dare la cura giusta se non conosce la malattia, ne deriva che conoscere le fragilità degli ambienti di produzione del T.magnatum schematizzandole per “ambienti-tipo” sia il primo passo fondamentale da fare. Gli ambienti accumunati dalle stesse fragilità hanno infatti le medesime esigenze di tutela. Definire questi ambienti “tipo” significa anche cogliere le criticità o le minacce esterne ai siti di produzione. Va da sé che tutelare la risorsa a livello regionale è un interesse prevalentemente pubblico.

Tradotto in soldoni significa che se non decolla in ciascuna regione un progetto regionale di tutela delle superfici tartufigene di effettiva produzione[3], le tartufaie controllate non possono svolgere da sole un ruolo efficace nella tutela della risorsa.

Di habitat di tutela ne possono esistere vari per il T.magnatum, ed ovviamente vanno definiti nello specifico per ciascuna regione.

In alcune tipologie di questi ambienti, là dove è minore la pressione delle attività antropiche, la gestione della singola tartufaia può corrispondere alla tutela di quell’habitat, ma non è possibile sposare questa equivalenza in generale, in quanto vi sono molti casi, reali e da me osservati negli anni,  nei quali la compromissione della tartufaia (anche controllata) avviene per fattori  esterni ad essa.

Ne sono esempi evidenti:

  1. La necessità di accordi territoriali tra Associazioni tartufai e Consorzi di bonifica per gli habitat di crescita di fondovalle (nello specifico habitat di tutela di fondovalle aperto), dove le attività dei Consorzi sui corsi d’acqua in loro gestione esercitano una competizione funzionale sugli ambienti di produzione del tartufo bianco pregiato, con danni talora notevoli. Risolvere questa specifica fragilità, dovuta ad un fattore esterno alla tartufaia (l’attività del Consorzio di Bonifica che ha come finalità quella della sicurezza idraulica), richiede specifici protocolli. Il termine protocollo non deve intimorire perché non sono altro che norme volontarie di tutela che vengono decise tra le parti e siglate tramite accordi e convenzioni. Queste si concretizzano:
  • nel calibrare gli interventi, magari con l’assistenza delle Associazioni;
  • nell’inserimento di specifiche contrattuali di tutela nei contratti di appalto quali ad esempio limitare il cantiere di lavoro (sono previsti nel contratto soltanto interventi manuali con attrezzature leggere quali motosega e verricello) in modo da evitare danni irreparabili al suolo tartufigeno;
  • escludere appositamente da parte del Consorzio la cessione gratuita della legna alla ditta di taglio, in modo da non favorire tagli superiori allo strettamente necessario contrastando contemporaneamente il prelievo, sempre preferito, delle specie quercine (simbionti) a fronte del rilascio di Robinia (infestante);

[2] Conoscere per tutelare: relazione di aggiornamento della mappatura e censimento delle aree tartufigene in Toscana. Regione Toscana  a cura di L.Gardin e L.Giannetti – 2024

[3] Le aree di effettiva produzione non sono aree “vocate”, non sono quelle “potenzialmente” produttive. Ma non sono neppure quelle più produttive all’attualità, magari con produzioni costanti e concentrate. Hanno una definizione specifica che consente di censire quanto è importante tutelare, ma evitando di imporre vincoli oltre il necessario.

A sn Tartufaia naturale censita ma ancora priva di normativa di tutela. Abbattibile senza iter autorizzativo come una qualsiasi pioppeta. A dx – Evidenti i danni irreversibili al suolo tartufigeno dovuti al cantiere di lavoro non appropriato
  1. 2 Il danneggiamento di tartufaie controllate in ambienti di tutela di fondovalle chiuso per:
  • interramento dei fossi e frane che, in ragione del maggior numero di eventi estremi, si realizzano più facilmente per la mancata regimazione delle acque a monte. E’ noto a tutti quelli che operano nelle campagne come la perdita di un reticolo minuto e gerarchizzato di regimazione delle acque meteoriche nelle coltivazioni a monte provochi la riduzione dei tempi di corrivazione delle acque con aumento del loro carico solido; Si possono perdere molte tartufaie naturali, anche controllate, in queste situazioni.
Gravi danni in tartufaia controllata di fondovalle per mancata regimazione delle acque a monte
  • degrado del sito (sebbene gestito come tartufaia controllata) per utilizzo come vie di esbosco da parte di attività agro-forestali limitrofe – con danneggiamento del suolo, deviazione del corso d’acqua dovuto al passaggio di grandi mezzi a ruote, interruzione dei fossi per effettuare il passaggio dei mezzi senza che sia ripristinato l’ambiente a fine lavori.
  • mancanza di acqua al Fosso nei periodo estivo dovuta anche alla perdita dei canali di adduzione, ne rendono testimonianza la  progressiva rarefazione dei salici bianchi, ormai residuali e non più produttivi in molti ambienti tartufigeni.

Questi semplici esempi chiariscono a mio avviso che la tutela della tartufaia non è garantita dalla manutenzione, per quanto accurata, della sola tartufaia!

Ma allora, se le tartufaie controllate, da sole, non possono garantire la tutela della risorsa, quali sono le strade da percorrere?

Teoricamente il percorso è semplice, nella pratica è un’attività che ciascuna regione italiana dovrebbe  sposare con convinzione,  con obiettivi chiari e strumenti aderenti allo scopo.

Il primo punto è la conoscenza della risorsa che si vuole tutelare. Per questo, in ogni Regione, alle molte iniziative che riguardano la caratterizzazione del prodotto, la sua valorizzazione ed il suo mercato si dovrebbero affiancare:

  • la mappatura delle aree di effettiva produzione tartufigena comprensiva di censimento delle aree a raccolta riservata;
  • l’individuazione all’interno del panorama di cui sopra degli ambienti o habitat di tutela che ci consentono di avere chiare le esigenze di tutela per ciascun ambiente-tipo in una determinata Regione;

Il secondo punto è l’individuazione degli strumenti di tutela:

l’inserimento di norme dedicate alle aree tartufigene individuate (norme vincolanti) nei regolamenti di attuazione delle leggi forestali per contrastare i tagli devastanti delle tartufaie naturali così come gli esboschi selvaggi. Inutile dire che siamo indietro anni luce, anche perché se non sai dove applicarle (la scala della mappatura deve potersi sovrapporre al catastale!) è impossibile dare prescrizioni idonee, così come è importante che i tagli delle aree riparie, anche se costituite soltanto da pioppi siano oggetto di autorizzazione (altrimenti come puoi dare indicazioni specifiche per la loro tutela nel momento del taglio?);

– Taglio del soprassuolo in una tartufaia naturale con un dannoso prelievo preferenziale di specie quercine, e rilascio di rare matricine di carpino bianco
  • nell’inserimento di norme dedicate alle aree tartufigene negli strumenti urbanistici dei Comuni (per le aree tartufigene che non possono essere tutelate dalle norme forestali)
  • concertazione di norme volontarie (protocolli di intervento tartufo-compatibili) con tutti quegli attori che operano negli ambienti tipici di produzione del Magnatum (es. Consorzi di bonifica; Enti Parco; Demanio Forestale);
  • incentivazione pubblica di buone pratiche tartufo-sostenibili alle aziende agricole che esercitano le loro attività nell’intorno delle aree tartufigene[4]. Il loro ruolo, sebbene esterno ed indiretto,  può essere sinergico nei confronti del mantenimento della risorsa, in questo caso possiamo davvero

[4] L’indennità “a pianta” prevista in Piemonte per il mantenimento delle piante tartufigene costituisce un caso particolare e limite in quanto direttamente finalizzata al mantenimento del soprassuolo simbionte, tuttavia si inserisce in questo tipo di incentivazione.

Parlare di vere e proprie “aziende comari”, che come tali meritano di essere incentivate nell’attuare comportamenti utili.

Quest’ultimo strumento di tutela, di notevole importanza per l’ambiente di produzione di fondovalle del T. magnatum, strumento sino ad oggi totalmente incompreso, merita invece di essere considerato anche in ragione del cambiamento climatico in atto.

Ormai è stato rilevato l’aumento di eventi estremi (la pioggia annua è la medesima ma concentrata in eventi di notevole intensità), così come l’aumento del numero di giorni in cui non piove (siccità).

A rigor di logica si prospettano quindi almeno due cose da fare: la prima è quella di riconsiderare l’utilità di incentivare i laghetti collinari, la seconda è regimare le acque superficiali, sia dentro sia nell’intorno della tartufaia.

E’ chiaro che gli interventi di regimazione idraulica interni alla tartufaia (ripulitura dei corpi idrici, creazione di fossette di smaltimento nelle aree produttive della tartufaia facilmente soggette a ristagni) possono essere svolti esclusivamente dai privati gestori delle tartufaie o dalle Associazioni di tartufai che operano su terreni di libera cerca, ma invece una revisione straordinaria del reticolo di smaltimento delle acque superficiali dovrebbe essere incentivata, in special modo in quelle aziende che per loro collocazione potrebbero svolgere un ruolo comare per il T. magnatum. Nessuno può riportare in vita i mezzadri che uscivano di casa con il pastrano e la zappa durante il temporale per indirizzare efficacemente l’acqua piovana in eccesso, ma mi volete dire che negli anni dell’intelligenza artificiale non siamo in grado di risolvere problemi banali come questi? Vogliamo evitare il dissesto idrogeologico, salvaguardare la biodiversità e il T.magnatum? E allora bisogna gestire l’acqua! Mettere in condizioni le aziende agricole che producono nell’intorno delle pasture di bianco pregiato di rivedere la progettazione ed il funzionamento di tutto il loro reticolo di smaltimento delle acque superficiali e sotterranee, inoltre incentivare l’acquisto di una attrezzatura di base per manutenere quanto hanno revisionato porterebbe vantaggi certi per gli habitat produttivi di fondovalle. Ma non solo. C’è dell’altro.

Spesso quando sento parlare di tutela mi sembra di vedere una partita di calcio giocata tutta in difesa. Tutti sanno che raramente si vincono le partite di calcio giocando soltanto in difesa, perché risulta una strategia molto rischiosa, ed è ovvio che per vincere una partita sia necessario giocare anche all’attacco.

Nel caso del T.magnatum giocare all’attacco significa soltanto una cosa è cioè che le tartufaie di bianco non vanno soltanto conservate in modo che si rinnovino, ma vanno anche moltiplicate nello spazio disponibile: vuol dire che dobbiamo fare in modo di aumentare gli ambienti potenziali di fruttificazione del bianco pregiato almeno nei territori storicamente produttivi!

Ripristinando i reticoli idraulici ho verificato che nel giro di pochi anni proprio su questi si ricreano spontaneamente le comunità vegetali tipiche degli ambienti tartufigeni e con le dovute eterogeneità e stratificazioni. La natura è meravigliosa.

Aumentare oggi il numero di ambienti naturali di potenziale fruttificazione futura è importante, in quanto sappiamo che il T.magnatum non è un fungo competitivo, ha bisogno di tempi lunghi per affermarsi sulle comunità fungine esistenti o di luoghi favorevoli soltanto a lui.

La Regione Toscana ha avviato in questa ultima amministrazione il progetto di tutela del T.magnatum, concludendo nel 2023 il primo punto di cui abbiamo parlato con uno studio di prossima pubblicazione in grado di dare linee guida e proporre definizioni.  Tutti i lavori sono perfettibili, ma intanto si dispone di un quadro (descritto e interpretato) sul quale poter lavorare con gli strumenti di tutela, dei quali abbiamo un bisogno urgente ed estremo. Il lavoro può costituire in ogni caso un punto di riferimento per tutte le altre Regioni, dando seguito alle tante riflessioni portate avanti nell’ambito del Tavolo di Filiera e nel Piano che ne è uscito al suo termine nel 2020.

Nuovo calendario per la ricerca del tartufo in Liguria: previsti quasi due mesi di fermo biologico

Modificato il calendario per la raccolta dei tartufi, disciplinata in Liguria dalla legge regionale del 1° marzo 2022. La norma prevede uno specifico calendario per la raccolta delle diverse specie, ma è anche previsto che la Regione, su parere di un centro di ricerca specializzato, possa con proprio atto variare il calendario regionale di raccolta in relazione all’andamento delle condizioni meteo climatiche, al fine di preservare e salvaguardare il patrimonio tartufigeno.

In tal senso, con decreto del Direttore Generale della Direzione Generale Turismo, Agricoltura e Aree Protette n. 5687/2024, su proposta dell’Associazione Tartufai e tartuficoltori liguri con sede a Millesimo e sulla base del parere favorevole espresso dal Dipartimento di Scienze della Terra, dell’Ambiente e della Vita (DISTAV) dell’Università degli studi di Genova, è stato modificato il calendario di raccolta dei tartufi, stabilendo in buona sostanza lo spostamento temporale dell’inizio delle attività di raccolta per tutte le specie commerciabili e la sospensione totale dell’attività tra il 1° maggio e il 31 maggio e tra il 1° settembre ed il 25 settembre al fine di perseguire, con il fermo biologico, la salvaguardia dell’ecosistema tartufigeno.

«Tale decisione si è resa necessaria in quanto l’andamento climatico degli ultimi anni, caratterizzato da una crescente variabilità con scarse precipitazioni nel periodo primaverile-estivo, siccità talvolta prolungata e conseguente aumento delle temperature medie, rappresenta un rischio concreto per la produzione di tartufo spontaneo, che non riesce a svilupparsi adeguatamente nel periodo considerato tipicamente di maggiore accrescimento – commentano dall’Associazione Tartufai e Tartuficoltori liguri-.  Rispetto al tradizionale periodo di raccolta, infatti, la piena maturazione del tartufo risulta ad oggi ritardata di alcune settimane.

Inoltre, ponendo l’accento sul tema sempre più centrale della conservazione della biodiversità, tale decisione è orientata anche all’adozione di pratiche sostenibili nell’utilizzo delle risorse naturali evitandone lo sfruttamento eccessivo e irresponsabile, che potrebbe portare ad una grave perdita di habitat e conseguentemente alla scomparsa della specie. Prevedendo dunque periodi di divieto di raccolta, risulta possibile permettere alle specie di concludere il naturale ciclo vitale  consentendo un ottimale sviluppo del micelio tartufigeno in modo che il medesimo si trovi nelle migliori condizioni possibili per una buona fruttificazione e maturazione». Milena Armellino

 

DDL 1412 sui Tartufi, il presidente Fnati Fabio Cerretano in audizione al Senato: “Non uccidete la Libera Cerca”

La Commissione agricoltura del Senato ha accolto in audizione di Fabio Cerretano, presidente della Fnati (Federazione nazionale associazioni tartufai italiani) nell’ambito della discussione sulle modifiche al DDL 1412, relativo alla disciplina in materia di tartufi.

Un intervento articolato e dettagliato, quello di Cerretano, che ha voluto sottolineare con fermezza la posizione dei cavatori italiani della Fnati a difesa della libera cerca e dei territori naturali del tartufo.

“Per prima cosa sgombriamo ogni dubbio sulla nostra posizione in merito alla coltivazione tout court del tartufo”, ha affermato, “impiantare una tartufaia ex novo significa lavorare il terreno, mettere a dimora le piante micorrizate, curarle e attendere la produzione del tartufo. Questa filiera non è mai stata messa in discussione dai cavatori. Quello che ci sta a cuore è la limitazione alla proliferazione delle tartufaie controllate e delle riserve di raccolta in genere, anche attraverso recinzioni selvagge”.

Il presidente Fnati ha ribadito l’importanza della libera cerca come pilastro della tradizione tartuficola italiana. “Se non ci fosse stata la libera cerca”, ha aggiunto, “il mondo non avrebbe conosciuto il tartufo italiano e l’Italia non avrebbe i livelli di produzione che ha oggi”.

Secondo i dati riportati da Cerretano, “allo stato attuale il prodotto naturale spontaneo rappresenta circa il 90% del prodotto nazionale, e il 100% se parliamo di tartufo bianco pregiato”.

Un passaggio centrale dell’audizione è stato dedicato alla difesa del patrimonio culturale rappresentato dalla cerca e cavatura del tartufo, riconosciuta come patrimonio immateriale dell’umanità dall’Unesco. “Siamo stati noi”, ha chiarito, “a opporci al patrimonio transnazionale perché crediamo nell’unicità della cultura e della storia italiana di cui la cerca e cavatura del tartufo è parte integrante”.

Cerretano ha sollevato anche criticità di ordine fiscale e normativo, in particolare sull’introduzione di nuove figure ibride come quella dell’“hobbista commerciale”, giudicata un “orrore tributario”, e sull’assenza nel DDL di un riconoscimento adeguato delle associazioni dei tartufai, “mentre trovano spazio solo quelle della produzione e commercializzazione”. Ha inoltre denunciato il rischio di distorsioni fiscali qualora la normativa favorisca il passaggio da redditi d’impresa a redditi agrari in assenza di reale produzione.

Infine, un appello diretto alla Commissione: “Onorevoli Senatori, vi imploriamo affinché la difesa del tartufo e del suo ambiente non rimangano lettera morta. Vi prego, a nome mio e di tutti i 200.000 cavatori italiani, di non uccidere la libera cerca!”. Cerretano ha ribadito la disponibilità di Fnati a collaborare con le istituzioni per un testo condiviso che tuteli il tartufo, il suo habitat e la tradizione secolare della cerca, garantendo equità e trasparenza per tutti gli attori del settore.

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