
La sfida delle salse tartufate: tra industria e artigianato
Quando si parla di tartufo trasformato, le salse tartufate occupano da decenni un ruolo centrale. Sono uno dei prodotti più diffusi tra scaffali e gastronomie, ma spesso anche il simbolo di un fraintendimento: percentuali irrisorie di tartufo, aromi sintetici a mascherare la povertà di materia prima, e un gusto che, dopo poche cucchiaiate, lascia più nausea che piacere.
Su questo terreno, tra “scorciatoie” industriali e artigianalità consapevole, abbiamo chiesto a Federico Virili, fondatore di ITA Truffle, giovane realtà umbra che ha scelto di puntare tutto su autenticità e controllo diretto del prodotto, di raccontarci il suo approccio alle salse tartufate.
«La salsa tartufata autentica si fa con tre ingredienti: funghi, tartufo e olio» spiega Virili. Tutto il resto – additivi, conservanti, aromi – appartiene al mondo dell’industria, dove il costo della materia prima viene ridotto ricorrendo a tartufi esteri di bassa qualità (Bulgaria, Romania) e il “profumo” è garantito da molecole di sintesi.
Il risultato? «Quell’odore forte e invadente che senti appena apri il barattolo non è tartufo: è solo aroma chimico. Ed è lo stesso motivo per cui dopo un paio di assaggi la salsa stanca e disgusta» racconta Virili.
Un settore senza regole chiare
Le salse tartufate sono tra i prodotti trasformati più diffusi della filiera. Eppure, a livello normativo, rappresentano un settore “grigio”: non esiste in Italia né in Europa un disciplinare specifico che definisca percentuali minime di tartufo, criteri di lavorazione o modalità di etichettatura differenziata.
La regolamentazione dei prodotti tartufati, come salse e oli aromatizzati, ricade principalmente nel quadro generale dell’etichettatura alimentare, disciplinata dal Regolamento (UE) n. 1169/2011 relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori. Sono richieste la dichiarazione degli ingredienti e dei quantitativi, ma non vengono fissate percentuali minime di tartufo né criteri di lavorazione specifici.
Le normative europee e italiane impongono che la dicitura “tartufo” appaia chiaramente in etichetta solo quando il prodotto contiene effettivamente tartufo, e, in caso di aromi o sostituti, deve essere evidenziato l’utilizzo di “aroma di tartufo” o “aroma tartufato”. Tuttavia, la quantità di tartufo utilizzata deve essere dichiarata tra gli ingredienti (QUID – Quantitative Ingredient Declaration), ma non sono fissate soglie o criteri qualitativi minimi.
Le uniche eventuali regole aggiuntive provengono da consorzi privati, disciplinari volontari o indicazioni facoltative stabilite da produttori o associazioni territoriali, ma non sono legalmente vincolanti né uniformemente adottate. In sintesi, le salse tartufate sono oggi regolamentate solo dalle generali normative alimentari e non da un disciplinare specifico dedicato al prodotto.
Il risultato è che, nella pratica, troviamo sul mercato prodotti con 2–3% di tartufo venduti come “salse al tartufo”, con un ricorso sistematico ad aromi di sintesi (di solito 2,4-ditiapentano) che simulano l’odore del tartufo. Conosciuto anche come bis(metiltio)metano, è un composto organico solforato naturalmente presente soprattutto nel tartufo bianco, ma viene spesso ottenuto per sintesi chimica da derivati petrolchimici e usato come “aroma di tartufo” nei prodotti industriali.
Quando l’etichetta riporta “aroma di tartufo” senza ulteriori specifiche, è generalmente questo composto artificiale a conferire il tipico odore e sapore persistenti del tartufo. Il 2,4-ditiapentano riproduce fedelmente la nota aromatica caratteristica, ed è considerato sicuro dal punto di vista alimentare, ma la sua presenza indica un prodotto aromatizzato e non un prodotto dove il sapore derivi dal vero tartufo in quantità sostanziali.
Il valore del territorio e il mercato
ITA Truffle propone due versioni: una classica con l’8% e una gourmet con il 20%, pensata per ristoratori e clienti che cercano un prodotto dal carattere intenso. In questo modo l’azienda traduce in pratica le differenze normative e qualitative descritte in precedenza, offrendo percentuali ben superiori a quelle comunemente presenti nei prodotti industriali.
Virili sottolinea che non ricorre ad aromi di sintesi, ma lavora solo con materia prima fresca, prevalentemente umbra, raccolta da sé o da cavatori di fiducia. «Ogni fase è seguita e assaggiata, proprio come fa uno chef in cucina. È così che mantengo il controllo del prodotto» racconta.
Per Virili, la differenza non si gioca solo sugli ingredienti, ma anche sul rapporto col territorio: «Non importo tartufi dall’estero, lavoro con quelli delle mie tartufaie e, se necessario, con quelli umbri. La qualità è superiore, sia nel profumo sia nel gusto».
Il mercato italiano dei trasformati al tartufo è tra i più sviluppati a livello mondiale. Qui operano colossi con distribuzioni capillari e capacità industriali enormi. In un simile contesto, differenziarsi non è semplice.
La strategia di ITA Truffle punta su educazione e assaggio: «Non basta la pubblicità. Io spiego la differenza tra industriale e artigianale, offro campioni ai ristoratori, e dopo che provano la salsa molti la richiedono. Per ora lavoro sul territorio, ma punto a crescere grazie al passaparola e ai social».
In conclusione, il tema delle salse tartufate mette in luce una questione cruciale per l’intera filiera: come coniugare accessibilità e qualità, volume e autenticità. L’esperienza di Federico Virili e di ITA Truffle mostra che c’è spazio per una proposta artigianale, radicata nel territorio e capace di distinguersi non solo con le parole, ma con i numeri in etichetta e il gusto nel piatto.
Per gli addetti ai lavori, il messaggio è chiaro: la battaglia non è solo commerciale, ma culturale. Sta al settore scegliere se difendere l’identità del tartufo italiano o lasciarla diluire, ancora una volta, tra aromi e percentuali simboliche.